Luigi Meneghelli

Il gioco diventa un’arte
L’arte, almeno quella che guarda alla realtà e al flusso ininterrotto delle immagini, si pone sempre più il problema di rendere visibile ciò che tende a sparire nell’assoluta invisibilità del panorama visivo odierno, di introdurre un linguaggio capace di mediare le comunicazioni immediate. Ciò non significa però praticare un atteggiamento di critica frontale nei confronti della “società dei consumi”, ma indagarne gli elaborati meccanismi, spiarne il sistema di funzionamento (magari con il rischio di assorbirne anche i caratteri di shock, sorpresa, liquidità). Forzando il tutto indifferenziato, comunque, l’arte cerca di “sollecitare differenti modalità percettive”, come scrive Guido Bartorelli, nel catalogo della mostra di Marina Bolmini, in corso fino al 29 giugno alla galleria Francesco Girondini Arte Contemporanea: quasi un tentativo che il presente abbia corpo e non solo immagine, un provare a Mettere al mondo il mondo, come recita anche il titolo di un’opera di Boetti.
Ebbene il lavoro della Bolmini (Vasto, 1970) prende avvio da uno dei più diffusi, avvincenti prodotti della cultura del divertimento come sono i videogames: dispositivi sofisticatissimi che coinvolgono il giocatore in una sorta di connubio perverso, simile a quello che si realizza tra carne umana e fredde lamiere in Crash (di Cronenberg): giochi che mescolano ricercate soluzioni tecnologiche a sorprendenti effetti visivi, macchine infernali in cui si consumano combattimenti estremi, viaggi vertiginosi nel terrore, incursioni parossistiche nello splatter più sfacciato.
Il quadro della Bolmini recupera alla lettera le scene elettroniche dei videogiochi più noti (da Mortal Kombat, a Street Fighters, a Tekken, ecc.): e che ci sia, da parte sua, una necessità di rimanere fedele alla conformazione degli schermi su cui le immagini si rincorrono a ritmi frenetici, è dato dall’uso di una cornice nera che ritaglia in maniera netta il gioco dalla vita reale, il rito dalla quotidianità. Solo che lei, questo “gioco rituale”, in qualche modo lo studia, lo analizza, lo decostruisce, lo capovolge. Non più frames impazziti, escalation accelerative di sorprese visive, ma decelerazione dei ritmi, rallentamento del costituirsi dell’immagine, dentro un’intervento di manualità antica, quale il mezzopunto su tela stampata.
Così, quello della Bolmini diventa un gesto artigianale “povero”, paziente che crea un cortocircuito sottile tra le icone luminose e immateriali dei monitors e le sue superfici cariche invece di un’intimità latente, di una promessa di fondo. Non solo: la laboriosa operazione di ago e filo, l’alacre procedimento della tessitura suggerisce (come scrive Derrida) anche l’idea del testo, del prodursi della frase, della parola, della lettera: un ordito che, come nel caso della tela del ragno, esce dal corpo stesso e si fa scrittura dell’interiorità.
Non pare casuale il titolo dato alla mostra, Home of the Brave, la casa del guerriero, quasi a rilevare come ogni combattimento venga riportato ad una dimensione privata, segreta, femminile, come ogni forma di agonismo virtuale, diventi una forma di lotta materiale, insistita, quotidiana. E anche gli altri lavori che presenta la Bolmini, ossia delle piccole terrecotte dipinte poggiate su centrini ricamati, intendono mostrare un eroe estratto dai circuiti visivi effimeri dei videogiochi e modellato come una statuina da presepe: reso poco più che soprammobile, oggetto domestico.
Con questo, nessuna intenzione di cancellare l’atmosfera tipica dei videogiochi, la loro morbosità, il loro estremo, la loro patologia (anche perchè le forme verbali del “tramare”, dell’”ordire” veicolano termini negativi come congiure, inganni o simili): quindi in scena vediamo invariabilmente killer spietati, guerre di gang, fiotti di sangue, ecc. Ma è il modo in cui li vediamo che muta: è la visione delle cose che si trasforma. E’ un pò come se la più spericolata innovazione dovesse fare i conti con la più profonda tradizione, la più avanzata tecnologia con la più indefessa artigianalità. Saltano i registri, le categorie, i codici. Il gioco diventa un lavoro, un ricamo, un’arte (anche se non smette la sua origine ludica).

Recensione pubblicata su “L’Arena”, 3 giugno 2002