Lucia Giardino

PLAY WITH ME
Nel catalogo della mostra di Marina Bolmini Home of the Brave del 2001, Guido Bartorelli scriveva, a proposito delle opere dell’artista ispirate a videogiochi: “Marina si trova sbaragliata di fronte a tale deliziosa sapienza d’immagine. Così decide di non aggiungere altro: si limita a sciorinarci una serie di schermate trovate tali e quali, in ready-made, setacciando alla moviola alcuni titoli più noti. Ecco – sembra dirci – ammirate qui che meraviglia!”. Bartorelli alludeva al fatto che Bolmini, di fronte alla maestria dei “creativi” dei videogiochi si toglieva il cappello e rendeva omaggio, riproponendoci, nelle sue opere, alcuni momenti topici di quei videogiochi stessi. Inoltre continuava spiegando che Bolmini non si limitava alla scelta del frame, bensì trasformava i suoi oggetti d’ammirazione, cambiandogli di segno tramite l’uso della tecnica - il mezzopunto – adottata per ri-rappresentarli.
Quello che accade nella presente mostra è forse una conseguenza logica, un avanzamento necessario nell’arte della Bolmini, la quale – veniamo a scoprire – del videogioco non ammirava soltanto i temi e il tratto del creativo che li forgiava, ma anche la tecnica digitale, che prima, in Home of the Brave, veniva, secondo Bartorelli, a negare con il ricamo. In Play with Me, infatti, Bolmini presenta opere realizzate al computer, nelle quali gli eroi nati reali da mani altrui, diventano virtuali e vivono di vita propria… propria s’intende dell’artista, che si è impossessata del mezzo.
Ed ecco che la tanto criticata grafica computerizzata, riscattante coloro che d’abilità pratica sono privi, diventa, nelle mani di Bolmini – che invece ha dimostrato altrove la sua maestria nell’operare - una necessità di linguaggio, l’ultimo stadio di un’investigazione artistica di trasposizione dell’io, e delle sue scelte, in un mondo altro, che da sempre, parallelamente al mondo reale, empirico, la segue e l’accompagna.
La tecnica digitale diventa l’ultimo stadio di purificazione del segno, che era stato in origine la pennellata netta e priva di sbavature, oppure il ricamo, che seguiva un tracciato preciso. Bolmini, infatti, non comunica tramite il gesto, non perde il controllo: sorge il dubbio che lei s’impossessi d’iconografie altrui per non rivelare la propria natura.
Play with me è un avanzamento anche in un altro senso: Bolmini mette da parte l’immaginario dell’infanzia, con i suoi miti e idoli di fumetti e cartoni, passando a ben più mature citazioni: quelle degli artisti da lei amati, o solo più frequentati dal mercato. Tali nuovi eroi le permettono quindi investigazioni sofisticate di “realtà” e di stili di natura accademica, proprio perché si riferiscono all’arte stessa.
La mostra è una sorta di galleria nella galleria, che mette in scena gli artisti, viventi e non, più famosi e pagati dell’oggi: da Warhol a Lichtenstein, da Cindy Sherman, a Vanessa Beecroft a Mike Kelley. Tutti si stagliano di fronte al pubblico, digitalizzati o, finalmente, completamente alienati, come alcuni di essi avevano dichiaratamente auspicato. Non voleva forse Warhol trasformarsi in una macchina? Qual è il fine ultimo delle modelle griffate della Beecroft se non il rinnegamento della loro natura animale e organica che le costringe a ritmi umani quali il mangiare, vomitare, ingrassare ecc...? E qual miglior displacement può augurarsi Mike Kelley per i suoi pupazzi, se non quello in uno spazio - la memoria virtuale di un computer - che prevede il distaccamento completo dal nostro spazio empirico, i cui limiti sono ancora più angusti delle sue scatole-tombe nere!
Nelle rivisitazioni di Bolmini l’organicità e molteplicità dell’essere - che paradossalmente ne segna l’unicità - sono completamente svanite. I manichini non tendono alla mimesi di ciò essi che sostituiscono o rappresentano: “Ho trovato una bambola senza capezzoli” esclama l’artista eccitata dalle sue conquiste creative, “mi sembra più appropriata per le Beecroft!”. Affermazione chiarificatrice su un’operazione che non e’ di “copiatura”, ma di esasperazione delle tensioni dei protagonisti reali, artisti o loro prodotti che siano, ai quali Bolmini dà voce, la sua. E suo è anche il corpo delle marionette, ma ancora una volta non pedissequamente rappresentato, bensì, standardizzato e ottimizzato per adattarsi armonicamente al mondo digitalizzato intorno a loro.
Play with Me, il titolo della mostra, è l’unica frase registrata in memoria dentro lo sportellino apribile situato idealmente nella schiena delle Beecroft e delle Sherman, dentro le scatole di Warhol, o nella calotta removibile della testa di McCarthy. Il protagonista-fantoccio non lotta più in una battaglia dove risulterebbe comunque perdente, come nella precedente Home of the Brave; il sapore malinconico di quella mostra è qui, infatti, assente perché il fantoccio ha annullato finalmente ogni atto volitivo, lasciandosi plasmare dall’artista demiurgo, che lo mette a tacere.

Dal catalogo "Sfogo n° 6 - Play with me", galleria Marconi, Cupra Marittima, 2006