Alfredo Sigolo

Marina Bolmini
Sono passati 40 anni dall’invenzione di Space War di Steve Russel al MIT, 30 anni dalla nascita di Pong di Nolan Bushnell, che ha portato al successo Atari, la prima azienda di videogiochi. Più o meno in quegli anni McLuhan scriveva che “i giochi sono modelli drammatici delle nostre vite”. C’è dunque da stupirsi della vena ludica di molti artisti contemporanei, in un’epoca in cui quella virtuale appare come l’unica realtà possibile? Per Marina Bolmini, classe 1970, trasporre in arte i videogiochi è del tutto naturale: gli still da video diventano moderni ready made, gli eroi del cyberspazio testimoni di culto di un’epopea effimera che dura il tempo di una moda. In mostra sono le scene finali degli street-fighting, i videogichi di combattimento, in cui uno dei guerrieri è ai piedi del vincitore, mortalmente sconfitto. Marina ricama a mezzo punto dettagli ed oggetti di quegli scenari termostampati su tela, imitando la scansione ritmica del pixel; ma dalla tridimensionalità illusoria del video i corpi degli eroi sconfitti trapassano nello spazio reale anche sotto forma di terrecotte dipinte e maioliche. La scelta di tecniche tradizionali e desuete, da parte di Marina, provoca in un colpo solo un doppio cortocicuito: da un lato quello temporale, indotto dall’opposizione tra i gesti veloci e ripetitivi del videogiocatore sulla cloche e quelli altrettanto ripetititvi, ma lenti e cadenzati, del ricamo o della plastica modellata, dall’altro quello spaziale, il trasferimento nella materia del bit elettronico. “Home of the Brave”, curata da Guido Bartorelli, è una mostra volontariamente contraddittoria che relega la virtus (non a caso la radice del termine “virtuale”) del coraggioso tra le rassicuranti (?) pareti domestiche.

Recensione pubblicata su “Flash Art” n° 235, Giancarlo Politi Editore